Il Male di Vivere in Cesare Pavese: Un’Analisi del Suo Diario alla Luce della Teoria di Eugenio Borgna

Il Male di Vivere in Cesare Pavese: Un’Analisi del Suo Diario alla Luce della Teoria di Eugenio Borgna

Cesare Pavese è uno degli autori italiani che più hanno incarnato nella loro vita e nella loro opera il male di vivere, un concetto che attraversa la sua produzione letteraria ma che trova la sua massima espressione nel Diario, pubblicato postumo con il titolo Il mestiere di vivere (1952). La sua esperienza della depressione e della malinconia si intreccia con le riflessioni di Eugenio Borgna, che distingue tra depressione esistenziale, depressione motivata e depressione psicotica, mostrando come queste possano sovrapporsi e mescolarsi.


1. La depressione esistenziale e la malinconia di Pavese

Secondo Borgna, la depressione esistenziale è quella forma di sofferenza che nasce dal senso di estraneità rispetto al mondo, dall’assenza di significato e dalla percezione di un’incolmabile distanza tra sé e gli altri. Questo tipo di depressione è strettamente legata alla malinconia, non intesa solo come emozione passeggera, ma come una condizione stabile dell’anima, una sorta di predisposizione all’infelicità.

Nel Mestiere di vivere, Pavese esprime in modo costante un senso di disillusione radicale verso l’esistenza, una ricerca di senso che si scontra con l’impossibilità di trovarlo. Scrive:

“Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola.”

Questa frase mostra bene la natura della sua depressione: non un semplice abbattimento, ma un’ossessione filosofica e psicologica per il dolore, che Pavese sembra considerare come l’unico vero modo per comprendere la vita.

La sua malinconia ha una radice profonda nell’impossibilità di trovare conforto nelle relazioni umane, nella sensazione di essere sempre solo, anche tra gli altri. La depressione esistenziale di Pavese è quindi legata al suo pessimismo antropologico, alla convinzione che l’essere umano sia irrimediabilmente destinato alla solitudine.


2. La depressione motivata: l’amore e il fallimento esistenziale

Diversa dalla depressione esistenziale, la depressione motivata, secondo Borgna, è una reazione a eventi specifici della vita, traumi o delusioni che scatenano uno stato depressivo.

Pavese, nel suo Diario, evidenzia come i suoi momenti più bui siano spesso legati ai suoi fallimenti sentimentali. L’amore, per lui, è una forza distruttiva, una promessa di felicità che però si trasforma sempre in delusione. Il rifiuto della scrittrice americana Constance Dowling, a cui dedicò il suo ultimo periodo di vita, fu per lui un colpo devastante, un innesco finale della sua depressione motivata.

Scrive:

“Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”

Questa frase, scritta poco prima del suicidio, mostra una depressione motivata che si sovrappone alla sua depressione esistenziale: il fallimento amoroso non è solo una delusione personale, ma diventa la conferma definitiva di un destino di sofferenza che Pavese ritiene ineluttabile.


3. La depressione psicotica: il crollo finale

Quando la depressione esistenziale e quella motivata si fondono e raggiungono un punto di non ritorno, si può arrivare alla depressione psicotica, ovvero a una forma di disperazione così profonda da alterare la percezione della realtà e portare a gesti estremi.

Negli ultimi giorni della sua vita, Pavese sembra perdere ogni contatto con la speranza. Non crede più che il dolore sia attraversabile, non cerca più risposte nella letteratura o nella filosofia. Il 26 agosto 1950, si toglie la vita in una stanza d’albergo a Torino, lasciando in Diario queste ultime parole:

“Non fate troppi pettegolezzi.”

Il suicidio di Pavese non è un atto improvviso, ma il risultato di un lento sprofondare in un abisso senza vie d’uscita, un processo in cui si intrecciano le tre forme di depressione individuate da Borgna.

  • Depressione esistenziale: la sua convinzione che la vita sia una condanna.
  • Depressione motivata: il dolore per i suoi fallimenti amorosi.
  • Depressione psicotica: la progressiva perdita della volontà di vivere, culminata nel suicidio.

Conclusione: Pavese, la scrittura e il dolore

Se è vero che la scrittura può essere un modo per elaborare il dolore, nel caso di Pavese sembra essere stata una trappola e una salvezza allo stesso tempo. Da un lato, il Diario gli permette di esplorare il suo male di vivere, di dargli una forma; dall’altro, è una testimonianza inesorabile della sua discesa nella disperazione.

Pavese scrive per sopravvivere, ma quando la scrittura stessa diventa insufficiente a dare un senso al dolore, l’unica risposta che trova è il gesto estremo.

La sua esperienza ci mostra quanto siano intrecciati malinconia, depressione e ricerca esistenziale, e quanto sia fragile il confine tra il pensiero del dolore e il dolore che divora ogni pensiero.

Riferimenti Bibliografici

  • Borgna, Eugenio (2011). Malinconia. Feltrinelli.
  • Borgna, Eugenio (2018). L’arcipelago delle passioni. Feltrinelli.
  • Borgna, Eugenio (2020). La fragilità che è in noi. Einaudi.
  • Pavese, Cesare (1952). Il mestiere di vivere. Einaudi.
  • Pavese, Cesare (2008). Lettere 1924-1950. Einaudi.
  • Pavese, Cesare (2008). Vita attraverso le lettere. Einaudi.
  • Givone, Sergio (2013). Il male di vivere. Sul destino della filosofia. Einaudi.
  • Heidegger, Martin (1927). Essere e tempo. Longanesi (trad. it. 2006).
  • Jaspers, Karl (1913). Psicopatologia generale. Il Pensiero Scientifico Editore (trad. it. 2011).
  • Nietzsche, Friedrich (1887). La gaia scienza. Adelphi (trad. it. 1977).
  • Sartre, Jean-Paul (1943). L’essere e il nulla. Il Saggiatore (trad. it. 2008).

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