Recensione di Black Boy di Richard Wright.


Black Boy di Richard Wright

C’è qualcosa di feroce e di bruciante in Black Boy di Richard Wright. Qualcosa che non si spegne, qualcosa che ti stringe lo stomaco come la fame che perseguita il giovane Richard per tutta la sua infanzia. È un libro che morde, che sporca le mani, che ti trascina dentro il fango della segregazione razziale e non ti lascia uscirne pulito.
Lo diceva Pavese, parlando della grande prosa americana: «Quella prosa che non si attarda in compiacenze o civetterie del mestiere, ma si sforza di dare alla pagina il ritmo e la convinzione della voce viva». Ed è proprio questo che fa Black Boy. Wright non si perde in decorazioni superflue, non offre consolazioni. Racconta la realtà per quello che è: dura, spietata, ingiusta.

L’urlo di un ragazzo nero in un mondo bianco

La storia è quella di un bambino nato nel Sud degli Stati Uniti, in un’America che lo vorrebbe servile, muto, invisibile. Un bambino affamato – di cibo, di libri, di vita. Wright cresce tra botte, punizioni, umiliazioni, ma il fuoco dentro di lui non si spegne mai. Si aggrappa ai libri, si aggrappa alle parole, e quelle parole diventano la sua arma più affilata.

Pavese lo sapeva bene. Non è l’America dei grattacieli e delle macchine lucenti, non è il mito del Nuovo Mondo che aveva affascinato gli intellettuali italiani prima della guerra. Questo è un altro tipo di sogno americano, quello che si consuma tra gli sputi per strada, le porte sbattute in faccia, le mani che tremano mentre un ragazzo nero impara a leggere di nascosto, come se fosse un crimine.
Un libro che torna a mordere
Negli anni ’40, Black Boy era un pugno nello stomaco per un’America che si vantava della sua democrazia mentre imponeva leggi razziali. Oggi, in un’epoca in cui il razzismo non è morto ma ha solo cambiato faccia, questo libro è più attuale che mai. Lo vedi nelle strade, lo vedi nei tribunali, lo vedi nei notiziari che ancora parlano di ragazzi neri uccisi dalla polizia, di quartieri lasciati marcire, di giustizia che pende sempre dalla stessa parte.
E allora Black Boy torna a bruciare. Torna a essere necessario. Wright non ti offre scuse, non ti lascia scampo. Ti costringe a guardare, ti costringe a sentire il morso della fame e l’umiliazione della paura.

Perché leggerlo oggi?

Perché viviamo in un’epoca di conformismo, dove tutti cercano di dire la cosa giusta senza mai sporcarsi davvero le mani. Perché il razzismo non è una reliquia del passato, è qui, nelle strade dell’America moderna, nei discorsi di chi vorrebbe far finta che non esista. Perché Black Boy non è solo la storia di Richard Wright, è la storia di chiunque abbia mai dovuto lottare per essere visto, per essere ascoltato, per essere libero.

Pavese lo aveva capito già nel 1947: «Ogni uomo è nostro prossimo». E Black Boy ci ricorda esattamente questo. Non c’è distanza tra allora e oggi, tra il Sud della segregazione e le città moderne. C’è solo una lunga, disperata corsa per la libertà. E Wright corre ancora, con le sue parole come colpi di martello.

Se non l’hai mai letto, è il momento di farlo. Se l’hai letto, è il momento di rileggerlo. Perché libri così non invecchiano mai. E perché il mondo, purtroppo, ha ancora bisogno della loro rabbia.

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