Nel mito della biga alata, meravigliosa metafora dell’anima, a sua volta specchio metaforico della città, l’auriga rappresenta la ragione, la funzione superiore dell’anima, mentre dei due cavalli raffiguranti l’irrazionalità delle passioni, il cavallo bianco ubbidiente rappresenta gli affetti più nobili e generosi che muovono l’anima al buono e al bello, mentre il cavallo nero, bizzarro, testardo e recalcitrante, ne rappresenta l’aspetto puramente istintuale, bramoso, egoistico e solo dedito al piacere e al bene del corpo.
Quindi, al di là di ogni facile manicheismo buono/cattivo, virtù/vizio, ciò significa che se è vero che solo l’auriga ha potestà di guida e che il cavallo nero rischia di far rovesciare la biga ri-gettando l’anima nel mondo (metempsicosi), entrambi i cavalli sono necessari al movimento e quindi al raggiungimento della meta. Cioè tutte le passioni sono fondamentali per la vita. Quello che allora possiamo e dobbiamo fare secondo Platone e tutta la filosofia classica greca è la metriopatia, ossia la misura e il controllo delle passioni, non certo l’apatia, che consiste nella loro privazione, che fu invero portata avanti da successive correnti filosofiche radicali come lo stoicismo come mezzo per raggiungere l’atarassia (letteralmente “assenza d’agitazione”), ossia l’assoluta imperturbabilità dello spirito necessaria al puro intelligere.
Il dualismo finì però per affermarsi e con esso la svalutazione delle emozioni: dal cristianesimo, con la contrapposizione tra divino e mondano, in cui andava a iscriversi non solo il corpo ma anche in definitiva l’anima, concetto del resto di importazione greca, fino a Cartesio, con la famosa separazione tra res cogitans e res extensa, cioè tra spirito e materia.
Verso la fine del ‘700 si attenua la condanna religiosa e morale nei confronti della vita affettiva, ma compare un nuovo tipo di giudizio, non meno deleterio del primo, stimolato dalla visione positivista e razionalistica della vita, quello medico della nascente psichiatria, per il quale una possibile causa dei disordini mentali viene imputata all’eccesso incontrollato delle passioni, che devono pertanto essere sottoposte a rigido contenimento, bombardamenti elettrici e farmacologici.
Ma nonostante tutti questi “correttivi” più o meno leggiadri, il cavallo nero continua imperterrito a dar fastidio a tutti nonostante persino la stessa psicoanalisi, che agli albori del 1900 ha immediatamente capito che era ora che ci si occupasse seriamente di lui, espressione e potenza primaria dell’inconscio, prima che fosse troppo tardi per l’intera convivenza umana – cioè prima che, spogliandosi del metem, diventasse semplicemente psicotico. Affrettandosi a creare quella che a buon diritto può essere definita la “scienza del cavallo nero”, con annessa prassi psicoterapeutica che non è altro che una moderna metriopatia: misura e controllo delle passioni. Con una novità fondamentale però rispetto ai filosofi greci: questa “bestia” tanto irrazionale non è, la sua ombrosità qualcosa significa, qualcosa da ricercare nelle pieghe della biografia, che è sempre opera di sangue e pensiero.
Come contraltare, però, è sul cavallo bianco che cominciano ad addensarsi dubbi e sospetti di tutti i tipi, come fosse un doppio idealistico, sublimativo e compensatorio, quindi non completamente reale, non completamente vero come il cavallo nero. Ma curiosamente il disagio, la riserva e l’ambivalenza riguardo le emozioni, che sono poi i moti fondamentali di quell’anima delle cui ferite la psicoanalisi ha inteso prendersi cura, sottraendola in tal modo al controllo della religione e all’omologazione sociale, restano, non solo tra i primi grandi psicoanalisti ma anche in buona parte di quelli odierni. Non riuscendo ancora a sciogliere il nodo gordiano del rapporto tra mente e corpo che l’anima si trova costantemente a mediare, strattonata da una parte e dall’altra, crocefissa da entrambi e per giunta con l’infinita pena di essere considerata tertium non datur, ovvero “una terza possibilità non esiste”.